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martedì 8 novembre 2022

La rete non ci salverà - Lilia Giugni. Longanesi.







La rete non ci salverà - Lilia Giugni. Longanesi.  Lilia Giugni in questo libro riesce a farci vedere una rete invisibile, non solo la rete che da decenni ci muove su internet ma quella rete invisibile che condiziona le nostre vite, soprattutto quelle delle donne e delle minoranze grazie all’approccio intersezionale che permea l’analisi. Riusciamo quindi a vedere mano a mano che proseguiamo nella lettura come la tecnologia che pensiamo di usare in realtà ci usi e non solo per quanto riguarda i dati personali o sensibili. Scopriamo infatti che c’è un rovescio dello schermo, un mondo che sfrutta, maltratta e violenta le donne che coinvolge l’intera catena di creazione, produzione e uso delle tecnologie che invece spesso diamo per neutre. Il problema, ci ammonisce più volte l’autrice, certamente non sono le tecnologie ma come esse sono concepite ed usate ma in una società patriarcale, capitalista e misogina non possiamo non evidenziarne l’ineguaglianza e lo sfruttamento ai danni delle donne che ne deriva.

Post sulle Donne indigene
La rete di tecnologie infatti non fa che amplificare con il suo potere di divulgazione ingiustizie e stereotipi di genere quando invece piuttosto siamo indotte a pensare che queste siano infallibili ed affidabili. Come per ogni settore il problema è che ci sono poche donne al vertice che coincide con il controllo; aspetto che è trasversale a molti settori non è un caso ad esempio se quando ci si è posto a livello internazionale il problema delle minoranze indigene, le donne non sono state interpellate e hanno ritenuto di doversi organizzare tra loro a livello internazionale.

Con questa opera l’autrice auspica di mettere noi donne di fronte alla realtà per rimboccarci le maniche ed agire su un sistema che va conosciuto per difenderci e soprattutto cambiarlo, così come Germaine Greer ci invitava a “voltarci e combattere”.

Accettiamo quindi la sfida che si rinnova con questa opera potente.

Le testimonianze e le storie di tante donne, italiane ed estere, bianche e non, lavoratici e non, ricostruiscono vivamente ai nostri occhi questa rete che il filosofo settecentesco invitava a squarciare per liberare la condizione delle donne da questi fili che ne pregiudicavano e guidavano le esistenze, anche noi ora pienamente coscienti possiamo iniziare a tirare i fili affinché  si dissolva la trama sottile che imprigiona le donne nelle nuove tecnologie. Da condizioni di lavoro sottopagato, dal lavoro in miniera per le materie prime necessarie all’assemblaggio e produzione degli strumenti che quotidianamente usiamo, alla violenza a cui sono sottoposte coloro che moderano i contenuti violenti dei social, che sono per la maggior parte donne. Così come giovani che loro malgrado ritrovano la loro vita privata su internet come il drammatico esempio di Tiziana Cantone, tutte donne a cui è dedicato il libro.

Ma ci sono anche i famosi algoritmi tramite i quali, senza rendercene conto, solo per il fatto di essere donne possiamo essere escluse o meno da posti di lavoro o da concessioni di mutui: “La transazione digitale ha portato con sé anche ingiustizie più sottili e incastonate nelle tecnologie d’avangaurdia”[1] , ingiustizie che inconsapevolmente contribuiamo a riproporre e diffondere anche solo usando, creando contenuti, mantenendo attive queste tecnologie. Siamo tutte ‘casalinghe digitali’[2]. L’autrice riesce bene a mettere in evidenza come questo circolo vizioso da ‘macchina  dalle uova d’oro’ ha ‘trasformato gradualmente ma inesorabilmente ogni aspetto della vita umana in risorsa economica, solitamente senza il nostro consenso’[3].

Come ci indica l’autrice c’è un filo invisibile che passa dalle risorse naturali che servono a far funzionare i nostri dispositivi high tech a chi nelle fabbriche li assembla fino a chi ci incappa involontariamente (si vedano i vari episodi di chi si è ritrovata su Hub-porn) perché come ci fa riflettere l’autrice questo mondo spesso ritenuto immateriale invece un riflesso materiale ce l’ha e guarda caso è a spese delle donne.

Un riflesso che non manca di toccare vari livelli come il digital gender gap o anche il linguaggio di genere. Esemplare è l’esempio che ci fornisce il maggior motore di ricerca online su cui se si digita la parola ‘donna’ si visualizzano quelli ritenuti sinonimi come capra, bagascia e via discorrendo. Mi viene in mente a questo proposito lo scandalo legato alla Treccani e al suo sito sul quale si presentava un uguale problema e a cui uomini e donne illustri cercarono di porre rimedio con una lettera aperta all’Istituzione della lingua italiana e firmata tra le altre da Laura Boldrini, Murgia, Imma Battaglia, Alessandra Kustermann e l’allora vice direttrice generale della Banca d’Italia Alessandra Perrazzelli. Ad oggi Treccani però non ha modificato la voce anzi ha aggiunto semplicemente un’avvertenza finale con la quale sostanzialmente non ritiene di apportare cambiamenti poiché l’Istituto si limita a registrare queste espressioni per quanto ne riconosca il simbolismo misogino frutto di una società plurisecolare maschilista che è penetrata nel senso comune della concezione della donna.
Link al post sulla Tesi di Laurea
sul Linguaggio di genere
Come d’altronde scordarsi dello scandalo tutto inglese ma contiguo  nella sostanza a quello italiano appena descritto  e cioè quello del Vocabolario Oxford costretto, questo sì, a cambiare la voce misogina grazie alla segnalazione e intraprendenza dell’industriale italiana Maria Grazia Giovanardi. Mi ricordo inoltre di una tesi di laurea americana che metteva in luce quanto in alcuni settori, ritenuti prettamente maschili, le donne fossero concepite e quindi descritte, dai documenti ufficiali alle chat aziendali, con quella scarsa considerazione che abbiamo visto fino ad ora. 

Ma Lilia Giugni ci dà anche dei rimedi per  non cadere nella rete e anzi rialzarci e diventare attrici attive affinché qualcosa, molto, cambi.

Se per secoli si è attribuito alle donne la capacità di tessere  tele nelle quali catturare gli uomini, si pensi solo alle opere di Bouchet o di Aylic Langle[4]  a noi piace invece, alla luce della lettura de La rete non ci salverà di Lilia Giugni, pensare a l’unica filosofa e scrittrice che nel Seicento rivoltò questo simbolo contro le donne in positivo per reclamare la naturalezza del suo pensiero creativo, scardinando e rivoluzionando le regole intellettuali e sociali con il concetto di trama e scrittura: Margaret Cavendish. Così anche noi seguendo i consigli di Lilia Giugni potremo essere  novelle Cavendish ognuna con il proprio contributo che, goccia nel mare, anche questo piccolo blog cerca di fare da decenni.

 



[1] Lilia Giugni, La rete non ci salverà, Milano, Longanesi, pag. 51.

[2] Ivi, pag. 139.

[3] Ivi, pag. 118.

[4] A. Buchet, Les femmes qui savent souffrir avec une introduction sur les femmes dans la societè chrétienne: Une toile d’aragnée, Paris, 1862. E  Aylic Langle, La tolie d’aragnée, Paris, 1864.










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lunedì 11 ottobre 2021

Il Global Gender Gap e il mito dei Paesi Nordici- Francesca Vitelli


Il Global Gender Gap e il mito dei Paesi Nordici

di Francesca Vitelli 

Presidente di EnterprisinGirls, Associazione nazionale di imprenditrici e libere professioniste

 

L’ Islanda va alle urne e - per una manciata di ore - sembra che il numero delle elette superi quello degli eletti, poi il riconteggio dei voti ridimensiona il numero e le donne elette tornano ad essere meno degli uomini, di poco, lo stacco è minimo. Ma se i risultati avessero mostrato una maggioranza di donne elette cosa sarebbe cambiato? Il Global Gender Gap elaborato dal World Economic Forum vede, nel 2021, al primo posto l'Islanda seguita dalla Finlandia. Per trovare l'Italia bisogna far precipitare il cursore lungo la colonna giù fino al 63simo posto. Il mito dei Paesi nordici lo abbiamo coltivato leggendo - negli anni - le statistiche, era un po’ come lo scudetto del campionato calcistico, si sapeva già chi lo avrebbe vinto, se la battevano in pochi.  Fondamentale è partire da un assunto: il Global Gender Gap si propone di stilare una classifica dei Paesi in base alla parità di condizione tra gli uomini e le donne e non di porre in cima quelli in cui le donne vivono meglio. Sembra scontato, basta leggere dice qualcuno, ma non lo è, ribadirlo aiuta a focalizzare l’argomento. Altrettanto importante è tener presente che stiamo leggendo una elaborazione basata su dati forniti dai singoli Stati che scelgono i loro set di indicatori, le modalità di rilevazione, di trattamento e di analisi dei dati, le fondamenta della costruzione sono, pertanto, poggiate su un terreno scivoloso perché eterogeneo. Il sistema, inoltre, è regolato dall’attribuzione di punteggi che risulta penalizzante per alcune nazioni, è il caso dell’Italia dove il maggior numero di ragazze laureate - in tempi brevi e con ottimi risultati – non può spostare la bilancia più di un tot facendo da contrappeso alla scarsa presenza di donne in ruoli istituzionali.

Il terreno scelto dal World Economic Forum è suddiviso in aree di indagine chiamate dimensioni latenti composte da indicatori elementari. Le dimensioni latenti sono: partecipazione e opportunità economiche, educazione – nel senso inglese del termine quindi istruzione, salute e presenza nell’agone politico. È tanto evidente, a guardar bene, la scivolosità, che simulando un ricalcolo che tenga presente alcune delle eterogeneità il risultato scompiglia la classifica. I numeri, le statistiche, vanno interpretate e la ricerca sul campo - arricchita dal confronto con i soggetti che vi operano - aiuta a comprendere. In Islanda e Finlandia c'è il maggior numero di donne elette e questo le fa svettare in cima però... però vanno considerati altri indicatori - come i contratti di lavoro atipici e il ricorso al part time, i percorsi e le progressioni di carriera, i casi di violenza domestica, la presenza di migranti - e non bisogna dimenticare la ponderazione rispetto alla popolazione. Già la popolazione, l’Islanda ha 369.000 abitanti, la Finlandia 5.538.000[1] e l’Italia 59.258.000 [2].

Di ritorno da un seminario tenutosi ad Helsinki, nell’ambito di un progetto Erasmus sullo scambio di buone prassi in materia di parità di genere, una domanda mi si è parata innanzi: data l'alta percentuale di donne che ricoprono ruoli istituzionali e la contenuta numerosità della popolazione non dovremmo, in Finlandia, aspettarci una maggior capacità di incisività da parte delle donne nelle politica? Non dovremmo trovarci di fronte a un mercato del lavoro caratterizzato da minor segregazione - verticale e orizzontale - femminile?  

Se hai la possibilità di scendere in campo ad osservare, ascoltare, intervistare e approfondire puoi scoprire dinamiche, caratteristiche e monoliticità che aiutano a comprendere. Incontrare alcune delle attrici istituzionali  - e non -  dell’ambito del mercato del lavoro, dell’associazionismo, del supporto ai migranti, dell’assistenza alle vittime di violenza domestica di Finlandia, Italia, Francia, Romania e Olanda ha significato aggiungere una lente attraverso la quale guardare al campionato del Global Gender Gap, campionato che ha l’indubbio merito di aver posto sul tavolo la parità di genere intesa come driver di sviluppo. Non è cosa da donne, è roba economica. Parlarne significa ragionare su punti di PIL. 

Ho deciso, perciò, nelle mie giornate finlandesi di tracciare un ideale perimetro dato dal rapporto tra l’estensione territoriale[3] e la popolosità entro il quale considerare variabili chiave come la legislazione vigente nei settori d’interesse, il livello di infrastrutturazione del territorio, la natura e la misura dello sviluppo delle aree metropolitane e di quelle periferiche, la tipologia di servizi sociali, la presenza di soggetti del Terzo settore, la mobilità sociale e il/i modello culturale prevalente di riferimento.

Allontanando il punto d’osservazione, inserendo una lente altra di lettura e ascoltando le esperienze concrete la fotografia è cambiata, la classifica si è rimescolata e se non vinciamo la coppa, per quanto mi riguarda, non meritiamo neanche il 63esimo posto. Questo non vuol dire che in Italia abbiamo raggiunto la parità di genere, il traguardo rimane lontano, ma ci sono aspetti sui quali non siamo così indietro come si potrebbe pensare guardando la classifica. Penso, ad esempio, all’obbligo dell’adozione del bilancio di genere[4], alla vivacità del dibattito sul linguaggio di genere, al proliferare di iniziative e la nascita di comitati, associazioni e organismi informali che approfondiscono e divulgano aspetti legati al dibattito di genere e alla collettiva, meticolosa, attenta opera di “scavo” che scrittrici, giornaliste, ricercatrici e cultrici della materia stanno compiendo per riportare alla luce la vita e la storia di donne sepolte sotto la polvere dei secoli. Scienziate, musiciste, compositrici, pittrici, scultrici, danzatrici, atlete, architette, poete, scrittrici, drammaturghe, giornaliste, esploratrici, botaniche, inventrici, attiviste politiche, amministratrici della giustizia, filosofe, astronome, matematiche, guerriere e donne che - in ogni ambito e settore - hanno compiuto scelte coraggiose e contro corrente sostenute dalla tenacia e la determinazione stanno emergendo dall’oblio in cui erano state relegate. C’è una pattuglia di donne competenti che impegna tempo, energia e risorse per restituire memoria e dignità ad altre donne. A questo pensavo quando in aereo ritornavo dal Nord Europa. Abbiamo molto lavoro da fare ma tante sono le persone, le idee e i progetti in movimento. La parità di genere è un percorso da fare insieme con tutte/i coloro che vogliono partecipare a un processo di cambiamento culturale, un processo dinamico che richiede tempo, pazienza, costanza, competenza, passione e concretezza.

 

 



[1] Fonte: GlobalGeografia.com

[2] Fonte: ISTAT

[3] 102.775 Km², 338.462 Km²,Italia 302.067,75 Km²,

[4] introdotto con la legge n. 15 del 2014 era già stato introdotto in Puglia con la legge Regionale per le pari opportunità n. 7 del 21/03/2007 "Norme per le politiche di genere e i servizi di conciliazione vita-lavoro in Puglia"

 

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martedì 23 gennaio 2018

Tutto il mondo (dello stereotipo) è paese...











L'immaginario collettivo, ormai si sa ampiamente, si forma attraverso anche un simbolismo che una società crea e alimenta. E in una società basata sull'immagine grande rilievo assumono i mass-media che si basano su questa, prima fra tutti la Tv, ormai il mezzo di comunicazione più diffuso e quindi potente perché raccoglie in se' vari strumenti di comunicazione dalle trasmissioni, ai film, alle pubblicità e tutti usano sapientemente le immagini, ognuno in base al proprio pubblico di riferimento e al proprio obiettivo. In più la Tv ha un potere ulteriore, quello di amplificare il messaggio che veicola, in gergo “reificare”, un aspetto che sembra però sfuggire a chi invece, usandola perché la fa, dovrebbe ben conoscerlo e tenerlo a mente quando progetta programmi, servizi, video, scrive trame e sceneggiature.

In effetti ha fatto scalpore la puntata d'esordio di una delle fiction più longeve della tv italiana, Don Matteo 11 in cui a guidare la stazione dei Carabinieri quest'anno è una donna. Bene si dirà, e quindi dove è il problema? Di per se' nessuno, le donne sono entrate relativamente poco tempo fa nelle Forze armate e hanno fatto carriera rapidamente per cui anzi questa innovazione rispecchia solo la realtà dei fatti. Il problema che è sorto è che nonostante questa presa di coscienza e di relativa trasposizione scenica le aspettative sono state deluse ma non per motivi recitativi come si potrebbe pensare. Durante un dialogo infatti la dirigente del Comando pretende di essere chiamata CapitanO correggendo chi tra i suoi sottotenenti la chiamava, correttamente, CapitanA. Insomma la Capitana pretendeva di essere appellata al maschile adducendo che il termine al femminile non esiste, ergo...qui effettivamente di pensiero non ce ne è stato molto da parte di chi ha scritto la sceneggiatura come
non ce ne è stata di grammatica italiana o meglio chi ha scritto la sceneggiatura non ha usato il pensiero se non ha usato e rispettato la grammatica italiana, declinando semplicemente il termine al maschile, non usando un linguaggio di genere.

Questa mancanza ha suscitato polemiche e giuste rimostranze con pensieri e reclami lasciati sulla pagina facebook della fiction.

A prendere l'iniziativa è stata proprio la linguista che spesso collabora con l'Accademia della Crusca, Cecilia Robustelli che ha lanciato l'allarme e ha richiesto l'intervento di tutte e tutti per focalizzare l'attenzione sull'importanza del linguaggio e del suo rispetto, che in questo episodio è venuto decisamente a mancare.

Si è trattato di un gesto gratuito, con un po' di malizia si potrebbe pensare che sia stato provocatorio ma sicuramente si è trattato solo di superficialità condita però da abbondante pregiudizio che vuole il maschile essere più prestigioso nelle cariche e funzioni elevate. Si è voluto fissare e rimarcare il fatto che alcune professioni esistono solo se al maschile, senza considerare la lingua italiana e le sue regole, che nella fattispecie erano proprio regole di base e senza tener conto poi dell'aspetto sociale delle parole e del mezzo usato per divulgarle.

Una mancanza da un punto di vista linguistico, semantico e sociologico importante visto che chi lavora con questi elementi dovrebbe invece avere ben chiaro gli effetti che si possono produrre, divulgare, rinforzare, costruire e demolire.

Si è creato in realtà una palese discrasia per cui si è voluto una nota di rottura col passato, introducendo una donna a capo di un Comando militare ma poi non le si è voluta dare la dignità di essere, cioè non le si è riconosciuta dignità di essere nominata, quindi di esistere.

Ma cosa succederebbe mi chiedo se fosse al contrario? Se nella precedente serie il Comandante venisse sempre e solo chiamato CapitanA? Ovviamente non andrebbe ugualmente bene proprio perché si verrebbe meno alla regola grammaticale di declinazione in base al genere e poi per questioni meramente culturali per cui suonerebbe molto strano, troppo, che un uomo venga appellato al femminile visto che appunto le professioni più importanti sono concepite solo se declinate al maschile ma altrettanto strano non pare se riguarda una donna, perché, ed è quello che è sfuggito agli-alle sceneggiatori, sceneggiatrici, il linguaggio è cultura, veicola e crea significati contribuendo a creare l'immaginario collettivo, e non è solo mere regole grammaticali, che comunque qui in ogni caso non sono state rispettate.




La campagna "In a Parallel Universe" di Eli Rezkallah
In questa faccenda ci può venire in aiuto un pubblicitario, produttore, fotografo, artista israeliano che proprio per scardinare gli stereotipi a danno delle donne ha reinterpretato alcune pubblicità delle più importanti aziende americane degli anni '40-'50 al maschile. Lo spunto gli è arrivato dallo zio che durante il giorno del Ringraziamento sosteneva che alcune faccende domestiche erano esclusivo appannaggio delle donne; da qui l'idea del progetto fotografico " In a Parallel Universe" in cui Eli Rezkallah reinterpreta al femminile pubblicità sessiste dello scorso secolo sperando di far cambiare la mentalità di quelle persone che la pensano come suo zio ed effettivamente riesce a veicolare sì l'assurdità e il ridicolo dei messaggi misogini dell'epoca anche se a quanto pare, come visto non interessano solo periodi passati ma gli stereotipi rimangono e si perpetuano e si celano subdoli, come solo gli stereotipi sanno fare, ancora nei meandri moderni e contemporanei per cui sì al capo femmina purché rimanga un'Innominabile.
















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martedì 24 ottobre 2017

Dagli Stati Uniti all'Italia. L'attualità delle 'Raccomandazioni' di Alma Sabatini




Un recente studio di una laureata statunitense Alice H. Wu ha messo in luce quanto il linguaggio sia connesso agli stereotipi o meglio quanto gli stereotipi di genere si trovino nel linguaggio e di come questo influenzi la condizione femminile soprattutto nel settore lavorativo.

La tesi di Wu1 si è concentrata sull'analisi delle espressioni usate con riferimento al genere femminile all'interno di un sito riservato a professionisti del campo economico usato per scambiarsi opinioni ed informazioni sul loro ambiente professionale e nel tempo è diventato un vero e proprio punto di riferimento non solo per “addetti ai lavori” ma anche semplicemente per coloro che vogliono conoscere gli argomenti sui quali i professionisti economici si confrontano.
La laureanda, oggi dottoranda alla Harvad University, identificando il testo quando riferito ad una donna grazie a pronomi come “lei, di lei...”, ha potuto evidenziare che le espressioni relative alle colleghe erano tutt'altro che afferenti l'economia ma piuttosto al turpiloquio con termini come: sesso, “baby”, appetitosa, focosa, bella, sexy, prostituta...
In parallelo ha poi usato la stessa tecnica per svolgere la ricerca prendendo questa volta in esame le espressioni riferite agli uomini ed i risultati sono stati esattamente l'inverso, infatti ha trovato associate al genere maschile parole estremamente professionali come amministratore, matematico e il contesto in cui venivano usate profondamente positivo, riferito agli obiettivi e perfino al Nobel.
Analizzando poi più in generale le discussioni legate al genere maschile e a quello femminile, Wu ha notato che i discorsi riferiti agli uomini si incentravano sulla carriera e sui colloqui mentre quelli riferiti alle donne si basavano sulla situazione personale, sentimentale o sull'apparenza fisica.


L'aspetto più interessante di questo studio, che ha suscitato parecchio scandalo negli Stati Uniti con l'interessamento di tv e giornali2, è il nesso che Wu ha notato tra i termini legati alla valutazione delle donne in ambito economico e la loro sotto-rappresentanza in questo ambiente, risultato estremamente sessista e in cui appunto le donne non solo sono numericamente inferiori ma non occupano posizioni apicali neanche nelle Facoltà di materie economiche. 


Il problema della scarsa presenza delle donne nell'ambito economico è in realtà ben nota e monitorata fin dal 1973 grazie all'iniziativa dell'American Economic Association, secondo cui non solo in un ventennio la percentuale di dottorande in materie economiche non è aumentata ma addirittura la frazione di laureate in economia sta diminuendo.
Eppure questa constatazione linguistica che Wu é riuscita ad evidenziare rispetto alla valutazione e quindi alla posizione delle donne americane nel settore economico ha suscitato tante critiche e sollevato malcontento, per una condizione invece suffragata da tempo anche da dati e ricerche e sorprende soprattutto perché si riferisce ad una società da sempre un esempio sull'evoluzione delle tematiche legate alle donne ma è pur vero che questo ci dimostra quanto gli stereotipi nel linguaggio siano permeati nella realtà anche di quelle società culturalmente avanzate.
D'altronde Alma Sabatini nelle “Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana” già ci diceva che “L'uso di un termine anziché di un altro comporta una modificazione nel pensiero e nell'atteggiamento di chi lo pronuncia e di chi lo ascolta3 e infatti la realtà femminile anche in Italia non è migliore degli stessi Stati Uniti. 
In effetti le donne italiane lo sanno bene visto che a guardare il punto di vista economico, le donne a parità di mansione guadagnano meno come un recente studio del CENSIS ha ben messo in evidenza e secondo cui in media una lavoratrice guadagna il 16% in meno rispetto ad un suo collega e la percentuale sale al 33% in meno di guadagno se si guarda alle manager ai vertici.
L'aspetto che lo studio americano ha messo in luce, ed è l'aspetto che più ha creato sconcerto, è proprio la relazione tra il linguaggio usato nei confronti delle donne e la loro valutazione professionale che viene penalizzata dal pensiero sessista dietro le parole usate e che impedisce loro di poter far carriera negli ambienti economici, di poter arrivare ai vertici, a oltrepassare il così detto “soffitto di cristallo”.

In Italia ugualmente abbiamo avuto fino ad ora una mancanza di rappresentatività anche in alcune cariche istituzionali come le amministrazioni comunali o parlamentari che hanno generato, e generano, difficoltà ad usare termini professionali declinati al femminile, basta ricordarsi all'indomani delle più recenti elezioni amministrative, ad esempio nelle città di Roma e Torino, il vocabolo di 'Sindaca' che ancora dopo un anno risulta di difficile assimilazione anche per gli addetti alla comunicazione come giornalisti e giornaliste di tv o giornali4. D'altronde la presenza delle donne nei mass media  sottolinea un gap di rappresentanza femminile, soprattutto in tv dove la presenza femminile in qualità di esperte di tematiche specifiche e soprattutto di argomenti ritenuti prettamente appannaggio di discernimento maschile come materie economiche, scientifiche e politiche è irrisoria rispetto a quella degli uomini chiamati a dare opinioni e consigli5.
La presenza di una donna in interviste, trasmissioni tv infatti supera di poco la percentuale del 30% rispetto a quella di un uomo spesso invitato in qualità di esperto: nei telegiornali la presenza femminile è pari al 22% quando si tratta di opinion maker o intervistate e al 25% se la si considera come protagonista della notizia o solo al 14% come esperta nei Telegiornali, mentre è del 28% se si considerano i soli programmi di approfondimento informativo dove le donne vengono proposte come intervistate o newsmaker, secondo lo studio, commissionato dalla Rai, che l'Osservatorio di Pavia ha evidenziato in una ricerca di due anni fa 6.

Come si vede quindi anche in Italia la scarsa presenza delle donne in settori apicali che siano istituzionali o manageriali o in generale nel mondo del lavoro, è strettamente legata al linguaggio con cui ci si riferisce alle donne, con cui si interagisce con le donne perché come Patrizia Violi7 ci insegna il genere manifesta un profondo simbolismo, le parole quindi veicolano significato e simbolismo che a loro volta creano e alimentano significati e simbolismi contribuendo pienamente a sviluppare l'immaginario collettivo.La parola è una materializzazione, un'azione vera e propria8 ci ammoniva Sabatini nel 1987 ma a leggere queste ricerche possiamo dire che di azioni ne abbiamo fatte poche e che ci manca tanto da fare per attuare quei cambiamenti anche linguistici specchio di una realtà sociale che ad oggi dopo trent'anni dal lavoro di Alma Sabatini fatica a rivolgersi alle Istituzioni più importanti del Paese come alla Presidente, alla deputata o più semplicemente alla Avvocata o Notaia perchè non é stata recepita una dimestichezza con questi termini, perchè le donne non hanno mai ricoperto se non da poco e in alcuni casi da pochissimo tempo quei ruoli occupati esclusivamente dagli uomini fino a un non breve tempo fa e che fanno “suonare male” la concordanza quando ad una professione, che tanto più è in alto più tanto suona strana, si associa il genere femminile.
Non solo, in questi anni  si è verificata  per di più quella che Giuliana Giusti9 chiama "la china peggiorativa", infatti spesso con il tempo parole che si riferiscono a categorie svantaggiate, di cui indubbiamente fanno parte le donne soprattutto in campo lavorativo, hanno assunto una connotazione peggiorativa, negativa che ne evita l'uso in favore, spesso, di un maschile inclusivo ritenuto più prestigioso.

Trent'anni fa in Italia si é cercato di analizzare l'importanza del linguaggio nel suo impatto nella società rispetto alla condizione femminile e accanto al lavoro di Alma SabatiniIl sessismo nella lingua italiana”, infatti incontriamo altre opere attente alla questione linguaggio-donne pensiamo a Elena Gianini Bellotti con “Dalla parte delle bambine” in cui analizza attraverso il linguaggio come ci si rivolge alle bambine e ai bambini, evidenziando preconcetti e stereotipi che poi condizionano le aspettative riservate all'uno o all'altro genere fin dall'infanzia. Una disamina che poi riguarderà anche i libri di testo scolastici con il progetto Polite in cui gli editori erano chiamati a prestare attenzione agli stereotipi che i testi per le scuole proponevano, purtroppo un progetto a lungo disatteso.
Alma Sabatini con la sua opera propulsiva e ancora capo saldo di riferimento attuale, ci invitava quindi all'azione tramite il linguaggio, ci invitava al cambiamento, un invito però a tutt'oggi ancora poco accolto e quindi sempre attuale e che riguarda tutte e tutti ed a lungo auspicato10.






Note:

1 La Tesi “Gender Stereotyping in Academia: Evidence from Economics Job Market Rumors Forum” è reperibile all'indirizzo 
https://www.dropbox.com/s/v6q7gfcbv9feef5/Wu_EJMR_paper.pdf?dl=0


3 Sabatini A., “Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana”, estratto da “Il sessismo nella lingua italiana” a cura di A. Sabatini, Presidenza del Consiglio dei Ministri e Commissione Nazionale per la Parità e le Pari Opportunità tra uomo e donna, 1987.

4 L'associazione di giornaliste Gi.ULiA da anni rivendica la necessità di un linguaggio di genere per la categoria giornalistica; a luglio del 2014 ha presentato una guida, curata da Cecilia Robustelli, in collaborazione con l'Accademia della Crusca su “Donne, grammatica e media”: 
http://www.accademiadellacrusca.it/sites/www.accademiadellacrusca.it/files/page/2014/12/19/donne_grammatica_media.pdf

5 Per una più ampia considerazione dell'immagine della donna in tv e nei mass media in Italia e all'estero, si veda l'articolo: http://www.ingenere.it/articoli/il-gender-gap-dellinformazione

6 Si veda a tal proposito il documento “Monitoraggio sulla rappresentazione femminile 2015” dell' Osservatorio di Pavia http://www.osservatorio.it/rai-monitoraggio-sulla-rappresentazione-femminile-2015/

7 Patrizia Violi è Professora ordinaria di Semiotica all'Università di Bologna.

8 Sabatini A., “Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana”, estratto da “Il sessismo nella lingua italiana” a cura di A. Sabatini, Presidenza del Consiglio dei Ministri e Commissione Nazionale per la Parità e le Pari Opportunità tra uomo e donna, 1987.


Giuliana Giusti è Professora ordinaria di Linguistica all'Università di Venezia Ca' Foscari.

10 Si vedano i tanti richiami anche da parte dell'Accademia della Crusca, come ad esempio:
e il volume di Cecilia RobustelliSindaco e sindaca: il linguaggio di genere” , volume n.4 della collana “l'Italiano, conoscere e usare una lingua formidabile” dell'accademia della Crusca in collaborazione con  il Gruppo GEDI (La Repubblica, La Stampa...); in edicola dal 14/10/2017.
o L'Enciclopedia Italiana Treccani:




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