Paolina Leopardi Ultima Parte- Leggere tradurre scrivere, una ragione di vita
PAOLINA LEOPARDIdiELISABETTA BENUCCI
L’atto del tradurre innalzò la sua passione su una soglia di consapevolezza, di difesa dall’incantamento passivo. Fu grazie alla traduzione e alla sorvegliata scrittura delle lettere, che Paolina si sottrasse all’effetto incantatorio delle avventure e delle descrizioni dei romanzi.
Paolina si indirizzò quindi verso il porto relativamente sicuro dell’attività di traduzione, la quale diventò il mezzo per non rinunciare, a dispetto della sua identità di donna, ai piaceri della scrittura, alle sue possibilità di svago e conforto. Rispetto alla semplice lettura, infatti, la traduzione, che spesso è resa volontariamente “infedele” rispetto al testo di partenza, le offriva una straordinaria opportunità espressiva: nella scelta dei testi e delle parole la traduttrice aveva modo di comunicare al pubblico di lettori il proprio mondo interiore, rompendo il muro di solitudine e di isolamento nel quale si trovava confinata. Ognuna delle tre opere riproposte più oltre, che Paolina Leopardi, con poca considerazione di se stessa, diceva di aver semplicemente tradotto dal francese, svela innovazioni, motivi e finalità molto diversi da quello che può apparire a una rapida e superficiale lettura.
«Vedi meglio di me ch’io non merito verun elogio per la traduzione dell’operetta di Maistre, essa indica soltanto che ho molto ozio, e che Nobili ha voluto stamparla: il libro nel suo originale è graziosissimo, vorrei che si potesse dir lo stesso nella lingua nostra», scriveva il 7 dicembre 1834 a Marianna Brighenti, alla quale un esemplare era stato inviato dall’editore. Era un modo per schernirsi, impossibilitata ad ammettere che quella versione dal francese era molto di più di una traduzione; era invece una scrittura creativa che prendeva le mosse da un testo che tanto le si attagliava.
Quando nel 1835 cessò il lavoro per la rivista paterna, Paolina non volle rinunciare a questa occupazione che le riempiva la vita. Non voleva ritornare alla routine di un’esistenza senza luce, inghiottita dagli obblighi di sempre. Determinata a continuare i suoi studi e i suoi impegni letterari, riuscì a crearsi una fitta rete di collaborazioni, entrando in contatto con le redazioni di vari giornali. Intensificò così la sua attività di traduttrice freelance, spedendo articoli, oltre che alla «Voce della Verità» e all’«Amico della gioventù» che si stampavano a Modena, a tanti altri periodici, in primo luogo alle gazzette di Bologna, Genova, Milano e Venezia, oltre che al giornale «Il Cattolico di Lugano. Alla fine i suoi scritti ammontarono a più di 450 titoli, dei quali almeno 304 videro la luce nella «La Voce della Verità». Se poi si considera che per «La Voce della Ragione» aveva tradotto e pubblicato ben 227 articoli, più quelli, dei quali conosciamo l’esistenza ma che non videro la luce, possiamo dire che la contessa si sia cimentata in circa un migliaio di testi brevi. Le traduzioni edite e inedite di Paolina erano talmente tante che Monaldo pensò di proporle al tipografo-editore Geminiano Vincenzi di Modena per dar vita a una pubblicazione periodica, «un tometto al mese», che raccogliesse le traduzioni inedite della figlia. Ma Vincenzi dopo qualche esitazione rifiuterà.
Nonostante che la trattativa con Vincenzi non fosse andata in porto, Paolina continuò a dedicarsi alla sua occupazione preferita che, dal 1832 al 1842, quando uscì a Loreto la traduzione La Conversione di Alfonso Maria Ratisbonne esposta da lui medesimo, le aveva permesso di manifestare il suo attivismo, le sue idee, i suoi gusti. Soprattutto leggere, tradurre e scrivere avevano contribuito a sedare quella sete di conoscenza che, oltre a farle conquistare un patrimonio intellettuale sempre più considerevole, l’avevano spinta a tenersi aggiornata sulle voci del mondo letterario europeo, in massima parte francese, quasi identificando in esse la parola magica che le permettesse di uscire dall’isolamento di Recanati.
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